Lo split-screen come la memoria che gocciola inesorabile su di noi; un fermo-immagine imprevisto e fulminante più di un momento d’azione; un montaggio ad orologeria che fa quasi sembrare la vestizione/preparazione in una sala da bowling una scena di sesso. Sono solo alcune istantanee di Buffalo 66, tuttavia sarebbe impresa ardua descrivere a parole un tale film, che sta dentro - ma soprattutto sta come - il suo protagonista, che si sente come lui. Il linguaggio di questa anomala, anormale tragicommedia si traduce in un gioco di scardinamento prospettico delle inquadrature, e di uno straniamento quasi (e comunque volutamente) sgradevole. Trattasi infatti di un’opera prima estremamente libera, destabilizzante, composta da riprese sfacciatamente schizzate e paranoiche, e da uno stile sbilenco ma già maturo nel manipolare e imbrattare di verità la materia in questione: dopotutto, soltanto uno come Vincent Gallo avrebbe potuto incentrare i primi 15 minuti di un film su un personaggio che cerca disperatamente un bagno. Billy Brown è appena uscito di prigione, è incasinato e nervoso anche se proprio non ci pare un ex galeotto; per proseguire una farsa messa in atto verso i suoi genitori prende ‘in ostaggio’ una ragazzina, senza però sapere davvero come comportarsi né con lei né con loro – una madre tragicamente ridicola e ridicolmente tragica, che guarda in loop la registrazione della partita di football che è stata la rovina di Billy 5 anni prima, e un padre un tempo cantante (ora ripiega sul playback) meschino e grottesco -, né tantomeno con una tormentata vendetta in cui il suo unico complice è un ragazzo ritardato che lui chiama tonto ma anche miglior amico. Su una trama che poteva degenerare in un dramma cupo e disperato, il regista/attore/sceneggiatore/musicista/prestigiatore (che spingerà all’estremo questa tecnica nel recente Promises written in water) disegna su di sé e sull’ambiente circostante il vissuto di un personaggio sconnesso, il cui animo e soprattutto stato d’animo barcollante, instabile, percorso da scatti di rabbia, frustrazione e attimi di tenera follia, s’imprimono nei movimenti di macchina da presa: li attira su se stessa, quasi li culla. E diventano per l’appunto inquadrature e riprese sbagliate, ma del tutto congruenti alle sensazioni, come fossero la traduzione in immagini dell’elettroencefalogramma di Billy, la sintassi interiore e vi(si)va delle sue emozioni. Gallo coglie così con forte autenticità uno stato d’animo, un raggrumo di suggestioni stonate per un’esperienza quasi sensoriale: puoi quasi toccare l’attesa angosciata della visita familiare, respirare la vergogna implosiva, assaggiare l’attrazione timida verso Layla, vedere un’ improvvisa presa di coscienza. Intrappolato in un paesaggio squallido e congelato, in un’immagine di sé vincente che lo incatena e lo falsifica, Billy vive tutto come se fosse ancora dietro le sbarre, in una prigione scoscesa, un luogo in cui s’inerpica continuamente, annaspa, s’infuria, suda, strepita e piange, insomma si dibatte per sopravvivere. Il mattatore Gallo vi si insinua, lo assorbe, ci scivola dentro, ed è in questo magma di pulsioni spalleggiato da una partner perfetta come Christina Ricci (la quale fa brillare di luce propria una fanciulla eterea e pienotta, agghindata come una Barbie dal cattivo gusto, alla cui solitudine soltanto si allude), e dagli altri comprimari (tutti superlativi: sia l’accoppiata Gazzara/Huston sia lo spassoso cammeo di Mickey Rourke). Figurine strambe ciascuna ugualmente inchiodata(si) alle proprie ossessioni, hanno rapidi lampi di emarginata e trasognata surrealtà (il ballo al bowling, la canzone del padre), ma che rimangono comunque inquadrati in desolanti siparietti da cabaret. Così, partendo da un tale campionario di umanità, si costruiscono davanti ai nostri occhi momenti sospesi e visioni stridenti sull’orlo della genialità, a partire da una love story che si snoda all’incontrario (partendo dall’incontro con la famiglia di lui, passando per il primo litigio e relative gelosie fino al primo bacio). Ci sono poi: una scena a casa dei genitori che nelle sue soggettive sbilanciate è assolutamente storta e irreale per quanto fa male; una ripresa dall’alto nel motel come se si stesse analizzando scientificamente, tramite vari flash, la scoperta degli affetti – e di come li si tratta – da parte di Billy; il suo angelo assurdo e un po’ in sovrappeso che danza sulle note di Moonchild dei King Crimson. E soprattutto c’è il finale, ultimo sberleffo inatteso che cogliamo con piacere; uno schiaffo che diventa una carezza talmente inaspettata da essere al tempo stesso quasi onirica, impossibilmente dolce, proprio come l’unico frammento che chiude il film e che non ha bisogno di tante parole, alla maniera di tutto ciò che ha preceduto questo viaggio strabico e (iper)realistico nella vita di Billy Brown (26/12/1966, Buffalo).
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